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IL CIECO DI GERICO (Mc 10,46-52)

 

 46 E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. 47 Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». 48 Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».

49 Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!». 50 Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. 51 Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!». 52 E Gesù gli disse: «Và, la tua fede ti ha salvato». E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.

 

E giunsero a Gerico.

 

Gesù, con i discepoli, è in cammino verso Gerusalemme. Marco, dopo aver narrato le vicende del Maestro in Galilea, nella Decapoli, nell’Iturea e nella Samaria, trasferisce il suo raggio d’azione nella Giudea. Poche decine di chilometri prima della città santa, si staglia la figura della più antica città del mondo: Gerico. Nel Nuovo Testamento la grande città viene citata nei sinottici solo a proposito della guarigione del cieco seduto fuori le sue porte a mendicare (Mt 20,29-34 dove i ciechi sono due; Mc 10,46-52 e Lc 18,35-43). Solo Luca cita Gerico in altre due occasioni: è la città di Zaccheo (Lc 19,1-10) ed è la città verso la quale si dirige l’uomo aggredito dai briganti (Lc 10,29-37).

Mentre nel N.T. Gerico ha solo una valenza geografica, nel Vecchio Testamento riveste un’importanza particolare: innanzitutto è la prima città situata oltre il fiume Giordano, in direzione ovest. In essa s’imbattono gli israeliti durante il cammino dell’esodo, nel territorio di Moab dove regnava Balak, figlio di Zippor. Questi, avendo udito le gesta che il Signore aveva compiuto per il suo popolo distruggendo molti regni nemici, avendone paura, chiamò il profeta Balaam per maledire questo popolo così pericoloso (cfr. Nm 22-24).

Inoltre, nello stesso territorio - nelle steppe di Moab presso il Giordano di Gerico (Nm 26,63) – Mosè e il sacerdote Eleazaro fanno il secondo censimento del popolo[1]. Dopo aver contato i membri del popolo, il Signore dà a Mosè le ultime istruzioni per impadronirsi del territorio ad ovest del Giordano, la terra promessagli da Dio fin dall’inizio del cammino nel deserto (Nm 33,50-56; 34,1 e segg.). Il libro dei Numeri si conclude proprio con la parola “Gerico”.

Ma dove Gerico raggiunge il massimo dell’importanza è nel libro di Giosuè (cfr. Gs 2-12, in particolare i capp. 5-6).  La città fortificata, quasi al pari di Sodoma e Gomorra, è simbolo dei nemici di Israele, anzi di Dio stesso. Essa sorge all’ingresso del territorio di Canaan e deve essere per forza spazzata via per fare posto agli israeliti; è l’ultimo nemico da abbattere prima di entrare nella terra promessa! Nessuno degli abitanti deve rimanere vivo, tranne la prostituta Raab che ha accolto le spie mandate da Giosuè nascondendole agli occhi dei soldati di Gerico (Gs 2,1-21). Anche i suoi tesori devono essere votati allo sterminio, pena la sventura assoluta su chi li tratterrà (Gs 7,1-26). Infine, essa non deve essere più ricostruita, perché chi lo farà sarà maledetto da Dio (Gs 6,26-27). Il cap. 6, in particolare, costituisce uno dei brani più belli di tutta la Bibbia: il brano della caduta di Gerico (ad opera delle sole urla di guerra degli israeliti, precedute da vari giri attorno alla città), è stato spesso preso dai Padri ad esempio del valore profondo che ha la preghiera nella lotta contro le tentazioni[2].

 

E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla,

 

In questa città così densa di storia biblica, Gesù arriva. E da essa riparte diretto a Gerusalemme. È l’unica città della quale Marco non riporta le opere che il Maestro certamente vi ha compiuto.  Egli arriva e riparte in un attimo: appare inspiegabile questo atteggiamento dell’evangelista. Può anche darsi che le notizie sul soggiorno di Gerico siano andate perse, ma queste sono solo supposizioni. La cosa importante è che Marco sembra dare un’accelerazione improvvisa alla marcia di Gesù: la città santa è vicina e la sua missione volge al termine, o meglio, entra nel vivo. La notorietà del Nazareno è giunta alle stelle considerata la molta folla che lo segue. In tutti i vangeli la folla è uno dei protagonisti degli episodi della vita pubblica di Gesù: è presente ai suoi molti discorsi, ai suoi miracoli, rimane sbalordita dei suoi insegnamenti, cerca il Maestro quando scompare e lo accompagna nei suoi viaggi. Ma è anche la stessa folla che accompagna Giuda nell’orto del Getsemani (Mc 14,43), che chiede a Pilato il rilascio di uno dei prigionieri (Mc 15,8) e che, sobillata dai capi del popolo, individua in Barabba l’uomo da liberare e chiede la crocifissione di Gesù (Mc 15,11 e segg.). E’, in sostanza, un elemento anonimo e variopinto, facile preda delle mode del momento e facilmente condizionabile dai potenti di turno.

Quella che troviamo in questo brano segue Gesù da lontano, forse addirittura dalla Galilea, e andrà a incontrarsi con la folla di Gerusalemme unita alla quale osannerà al Figlio di Davide (Mc 11,9-10)[3]. Entrambe, la notte del giovedì santo, accompagneranno il loro idolo al processo, prima, e alla crocifissione, dopo.

In questa folla sono anche i discepoli che gli evangelisti hanno sempre distinto da essa (non è chiaro se si tratta dei dodici o di un gruppo più vasto). Questi sono un piccolo gruppo più solidale con il Maestro, che ha condiviso la sua vita pubblica e che, almeno, non gli si rivolterà contro, pur scappando nel Getsemani per paura. Anche loro, però, come vedremo dopo, non aiuteranno il cieco nella sua azione di farsi notare da Gesù.

 

il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare.

 

Ecco il protagonista del racconto: un uomo con un nome e un volto preciso, di cui si conosce la famiglia, la condizione sociale e come vive. Marco è l’unico dei sinottici a dire il nome del cieco così come è l’unico a dare notizie precise del cireneo indicando i nomi dei figli (Mc 15,21), mentre Matteo e Luca ne riferiscono solo il nome. Quest’uomo, dunque, facilmente individuabile, siede lungo la strada a mendicare; non si trova né in Gerico e né in Gerusalemme. È fuori dalle due grandi città: la città dell’antica alleanza rinnovata da Giosuè e la città della nuova alleanza che tra poco sarà instaurata dal Cristo. Si potrebbe dire che Bartimeo non è un uomo tradizionalmente religioso, né tantomeno un vero credente. Probabilmente la sua condizione di cieco lo aveva reso incapace di qualunque rapporto con la religione e il tempio, anche perché, nella tradizione ebraica, chiunque avesse un handicap era un peccatore punito da Dio (cfr. Lv 16, 21 e segg.; Tb 5,10; Ger 31,8; Gv 9,1-2). Cercando di rendere attuale questa situazione, potremmo dire che il cieco di Gerico è immagine di ogni uomo e donna che vive una vita lontano anche soltanto dal porsi la domanda sull’esistenza di Dio e in quale modo ne siamo in rapporto. Il cieco di Gerico è immagine di ogni uomo e donna che vivono una vita inutile, passiva, priva di senso. Inoltre, poiché sta sulla strada a mendicare, il cieco di Gerico è anche immagine di ogni uomo e donna che mendicano un affetto, uno sguardo, un briciolo di attenzione dal prossimo, che elemosinano la vita dagli altri e che sono seduti nella loro condizione senza alcuna speranza di rialzarsi. Da notare, quindi, come queste poche parole di Marco danno ampio spazio alla riflessione personale poiché nella situazione di Bartimeo, credo possiamo rivederci un po’ tutti, sia al tempo presente, sia guardando a com’era la nostra vita prima dell’incontro col Nazareno.

Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire

 

Il cieco ascolta una notizia: c’è Gesù Nazareno! Seduto lungo la strada a mendicare, quest’uomo viene a conoscere qualcosa che cambierà totalmente la sua vita. È cieco ma non sordo, Bartimeo, ed è questa una caratteristica che a noi dice una cosa molto importante: la fede nasce dall’ascolto! (cfr. At 8,5-6; Ef 4,20-21; Rom 10,17).

Essere cieco è una condizione terribile, sia dal punto di vista fisico, sia da quello spirituale, ma essere sordo è molto peggio. Dal punto di vista umano, il sordomuto è una persona che vive in un suo mondo ovattato, che non può conoscere i rumori della vita, mentre il cieco ha maggiore capacità di relazionalità e, spesso, riesce ad esprimersi ed integrarsi nel vissuto quotidiano molto meglio di un sordomuto, arrivando anche a forme artistiche elevate (basti pensare a Ray Charles e Stevie Wonder nel campo della musica blues).

Sotto l’aspetto spirituale, il cieco è capace di ascoltare la Buona Notizia, mentre il sordo no. In tutti e quattro i vangeli ci sono più guarigioni di ciechi che di sordi; nel solo vangelo di Marco ce ne sono tre: due ciechi (8,22-26; 10,46-52) e un sordomuto (7,31-37). E mentre la guarigione del sordomuto e quella del cieco di Betsaida sembrano rassomigliarsi (entrambi sono condotti da altri, ad entrambi viene imposto di non rivelare l’accaduto, ecc.), il miracolo di Bartimeo è sicuramente unico nel vangelo (il cieco grida verso Gesù, gli viene concesso di seguire il Maestro e manifestare pubblicamente la sua gioia, ecc.). Questo ci fa pensare che, se è vero che la condizione di sordità è peggiore della cecità, è pur vero che peggiore di tutti è l’indifferenza, l’apatia spirituale, la non-voglia di cambiare.

La prerogativa di Bartimeo, che lo rende così diverso da tanti altri miracolati, è la sua volontà di gridare, di farsi sentire da quel maestro di Galilea del quale, sicuramente, conosceva la fama, considerato il modo in cui grida e quello che dice.

 

Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!

 

Cosa grida il cieco a Gesù? Poche parole, ma stracolme di senso: in lui riconosce il Messia – figlio di Davide – e il Salvatore – Gesù = Dio salva – e, come il padre dell’epilettico indemoniato (Mc 9,14-29), chiede pietà. Questa espressione, in Marco, appare solo due volte: nel nostro brano e in Mc 9,14-29, mentre è più usata da Matteo e Luca. In ogni caso, indica un profondo riconoscimento della propria natura di peccatore nella quale solo Dio può intervenire.

Chiedere pietà a qualcuno vuol dire riconoscerne l’autorità, ammettere che la propria vita è nelle sue mani, maggiormente quando chi ci sta davanti è Dio stesso. Nei vangeli, inoltre, è espressione profonda di voler cambiare vita, di aver toccato il fondo e tendere la mano a chi ha il potere di farci risalire dall’abisso delle nostre iniquità.

I padri del deserto (e la spiritualità orientale in genere) hanno fatto di questa espressione un archètipo della fede, la cosiddetta preghiera del cuore[4] da recitare in ogni momento della giornata fino a farla coincidere con il proprio respiro; è la preghiera che ricorda ad ogni cristiano la sua incapacità di amare, ma che, allo stesso tempo, apre gli orizzonti dell’esistenza sulla sconfinata misericordia divina. Elevare a Dio queste parole, soprattutto nei momenti bui, è garanzia di ascolto e di conversione se mossi da un cuore desideroso di perdono. La frase di Bartimeo è la più antica preghiera litanica cristiana e racchiude in sé l’intera storia della salvezza, riconoscendo nel Nazareno il Messia che porta a compimento le promesse di Dio (cfr. II Cor 1,20).

 

Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».

 

Perché la folla vuol zittire Bartimeo? Perché Marco e Luca ci riferiscono questo particolare? Ogni passaggio di Gesù attirava moltitudini di poveri e malati bisognosi di guarigione, le folle erano abituate a queste richieste di aiuto. Perché qui vogliono zittire il cieco?

Forse ci può venire in aiuto il racconto di Luca il quale dice: Quelli che camminavano avanti lo sgridavano, perché tacesse (Lc 18,39). Camminare avanti può essere sinonimo di guidare: questi sono i primi del nutrito gruppo che precede Gesù i quali non vogliono essere disturbati nel loro cammino trionfante verso la città santa, non vogliono intoppi o rallentamenti, hanno una meta da raggiungere al più presto e non vogliono fermarsi. Ma camminare avanti, in una lettura spirituale, può anche essere sinonimo di adulti nella fede, cioè di persone che hanno già compiuto un lungo cammino e vedono la mèta del battesimo vicina (non dimentichiamo mai che i vangeli hanno anche avuto una funzione catechetica di preparazione ai sacramenti) e non vogliono fermarsi ad aspettare chi è rimasto indietro. La presenza di Bartimeo, in definitiva, viene a rompere i loro progetti e, pertanto, va zittito.

 

Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!».

 

Il cammino di Gesù rappresenta il movimento storico e geografico del Figlio di Dio verso il compimento della volontà del Padre: la Croce! In questo momento particolare, a pochi chilometri dalla città santa, il cammino del Nazareno si fa più spedito, più ansioso: la sua ora si avvicina sempre più! Alcuni mistici, che hanno avuto il dono di entrare profondamente nel mistero e di percepire, anche fisicamente, le ansie e le sofferenze del Figlio di Dio su questa terra (vedi s.Teresa d’Avila, Padre Pio, ecc.) ci direbbero che a pochi chilometri da Gerusalemme, il cuore di Gesù ha aumentato i suoi battiti. È come quando vai ad un appuntamento amoroso o di lavoro: senti che il momento importante, per il quale hai faticato tutta la tua vita, si avvicina; e ciò non può fare altro che aumentare la tensione che, nel caso di Gesù, raggiungerà il culmine nell’orto del Getzemani (cfr. Mt 26,36 e segg.). Eppure, pressato dalle grida di Bartimeo, egli si ferma e lo fa chiamare.

Il Figlio di Dio, nel suo cammino verso la sua ora[5], riesce ancora a trovare il tempo di ascoltare il grido di un uomo che, dal punto di vista sociale, non valeva niente. Egli è disposto a ritardare la sua missione per ascoltare le grida degli ultimi della terra, a differenza della folla che aveva cercato in tutti i modi di evitare questa sosta.

 

E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!».

 

L’ultimo miracolo riferito da Marco è preceduto dalla chiamata del cieco ad opera degli stessi discepoli. Sembra quasi che l’evangelista voglia sottolineare l’azione indispensabile della Chiesa che collabora, in modo inscindibile, al compimento del miracolo. Come alle nozze di Cana, dove i servi riempiono le giare di acqua che verrà trasformata in vino (Gv 2,1-12), così fuori le mura di Gerico sono i discepoli stessi a chiamare il cieco per condurlo a Gesù. La collaborazione fra il Cristo e il suo corpo mistico, la Chiesa, è unica e assoluta: senza di essa l’amore di Dio non sarebbe visibile e senza la presenza del Figlio di Dio l’azione della Chiesa si ridurrebbe ad una pia opera di assistenza.

Le tre parole riportate, nel testo tra virgolette, meritano un’attenzione a parte.

1) Nel linguaggio odierno la parola coraggio indica una forza morale che mette in grado di intraprendere grandi cose e di affrontare difficoltà e pericoli con piena responsabilità; è sinonimo di ardimento, audacia ed è il contrario di paura. Usata in forma interlocutoria vale come esortazione a non abbattersi e affrontare la prova con grande forza d’animo. Nei vangeli è lo stesso Gesù che esorta il suo interlocutore a non lasciarsi andare (cfr. Mt 9,2; Mt 9,22; Mt 14,27) ma, a differenza delle nostre esortazioni, quella del Cristo anticipa un evento: la guarigione dal male e dal peccato! Nella Scrittura nessun termine è usato a caso e molti hanno una valenza che va oltre quello che significano: un esempio su tutti lo troviamo nella creazione. Quando l’autore sacro riporta la volontà di Dio di creare l’universo usa il verbo dire: “E Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu” (Gen 1,3). Quindi la parola ha un effetto creativo, concreto, che va oltre il semplice suono.

2) La parola alzati rievoca la guarigione del paralitico di Mt 9,1-8 e del lebbroso di Lc 17,11-19, ma anche i miracoli di Pietro negli Atti degli Apostoli (cfr. At 9,40. 14,10, ecc.). E’, pertanto, un imperativo importante nei vangeli ma anche nel Vecchio Testamento dove spesso viene usato dall’uomo nei confronti di Dio a mò di supplica (cfr. Sal 21,14; 94,2; Ger 2,27). Unito all’esortazione precedente, questo termine invita Bartimeo a mettersi in movimento, un movimento verso una meta quale realizzazione dei suoi desideri; quindi un movimento fecondo, non sterile, pieno di speranze prossime a realizzarsi.

3) Dopo l’esortazione a non abbattersi e l’invito ad alzarsi, i discepoli danno a Bartimeo la lieta notizia: il Maestro ti chiama! In questi tre verbi Marco dimostra tutta la sua capacità di sintesi: nel coraggio ha racchiuso tutti i sentimenti interiori dell’uomo, tutto ciò che in esso crea stati d’animo e dai quali deve liberarsi per andare incontro al Cristo che viene; nel gesto dell’alzarsi ha racchiuso la corporeità dell’uomo, il suo essere azione, gesti, comunicazione verbale e fisica, la sua dinamicità, la sua capacità di mettersi in cammino, la sua volontà intrinseca di giungere alla meta; nella chiamata, infine, ha  racchiuso il rapporto unico e irripetibile che si crea tra Dio e l’uomo quando questi lo incontra: da parte sua c’è un’attesa e da parte di Dio c’è la chiamata. L’essere umano, composto di sentimenti e di fisicità, viene coinvolto tutto intero dall’incontro con il Cristo, in una dinamica fatta di chiamata e risposta, di sguardi che s’incrociano, di speranze che si realizzano e di azioni di grazia che trovano dove posarsi.

 

 

Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.

 

In questa frase ci sono due evidenze molto forti: la parola mantello e il gesto di balzare in piedi. La prima, in tutta la scrittura, ha un valore molto più forte del semplice copriabito. Vediamone alcune: 1) in Es 22,25 è stabilito che chi prende in pegno il mantello al suo prossimo glielo deve restituire al tramonto; 2) in 1 Sam 28,14 il re Saul, avendo interpellato la negromante di Endor per conoscere il proprio futuro, sente che la donna, nella sua visione, vede un uomo anziano vestito di un mantello nel quale riconosce Samuele; 3) in 1 Re 19,19 il profeta Elia chiama alla sua sequela il giovane Eliseo gettandogli addosso il mantello; 4) in Gb 29,14 Giobbe, parlando della sua equa condotta di vita, la definisce turbante e mantello a voler significare che la sua esistenza era vissuta rettamente al punto che la sua rettitudine lo rivestiva come un mantello e un turbante; 5) in Pro 30,4 la potenza di Dio è tale che racchiude le acque della terra nel suo mantello. E ancora, nel Nuovo Testamento: 1) in Mt 21,8 la folla esultante stende i suoi mantelli sulla strada dove passa il Messia; 2) in Mc 5,30 Gesù sente che la donna emorroissa lo tocca quando si sente toccare il mantello; 3) in Lc 22,36 il Cristo chiede ai discepoli di vendere il mantello per comprare una spada; 4) in At 7,58 gli uomini che lapidano Stefano gettano i loro mantelli ai piedi di Saulo; 5) in II Tm 4,13 Paolo chiede al discepolo a cui indirizza la lettera di portargli il mantello che ha lasciato a Triade; 6) in Ap 19,13 il personaggio a cui Giovanni dà il nome di “Parola di Dio” è avvolto in un mantello.

Risulta abbastanza evidente, quindi, l’importanza capitale del mantello nella tradizione ebraica; ma anche in tutta la tradizione medio-orientale il mantello è indispensabile, se non altro per motivi climatici: serve a proteggersi dal sole di giorno ed a ripararsi dal freddo di notte. Qualunque uomo, povero o ricco, aveva il suo mantello dal quale non si staccava mai: esso faceva (a tutt’oggi, per molti popoli, fa ancora) parte di se stesso. In una parola, il mantello rappresenta la vita di chi lo indossa e, per i poveri, è tutta la loro ricchezza.

Pertanto, anche Bartimeo aveva il suo mantello nel quale avvolgeva le sue misere ossa per trovare conforto dal freddo, come abbiamo detto, ma anche per trovare un calore morale che nessun altro poteva o voleva dargli. Gettare via il mantello vuol dire, quindi, scrollarsi di dosso tutta la vita passata ed aprirsi al nuovo definitivamente: d’ora in poi, la sua unica consolazione, il suo unico riparo dalle intemperie della vita, sarà il Cristo!

In questo contesto, il gesto di balzare in piedi è strettamente connesso al gesto di gettare via il mantello. È sintomatico come il verbo balzare lo si ritrovi in Ct 2,8 riferito allo sposo che salta per i monti, balza per le colline; è un gesto impetuoso, irruente, dettato da una forte carica di dinamicità. Letto in rapporto al testo del Cantico, evidenzia lo stesso amore che lo sposo ha per la sposa: se lo sposo rappresenta, nella tradizione della Chiesa, il Cristo, allora possiamo dire che il desiderio di Bartimeo di incontrare Gesù è pari al desiderio del Messia di incontrare la Chiesa e, nel particolare, di incontrare il cieco nato! Quando si parla di amore è impossibile stabilire una scala di valori; certamente l’amore che l’uomo ha per Dio, nella sua espressione massima, è sempre imperfetto rispetto all’amore che Dio ha per l’uomo. Ma se valutiamo i due valori relativamente alle posizioni di partenza, allora non è azzardato dire che se Dio ha dato tutto di sé all’uomo, anche l’uomo è capace di dare tutto di sé a Dio.

 

Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?»

 

La domanda di Gesù è un classico nei vangeli: il Maestro chiede sempre a chi lo invoca l’oggetto della sua invocazione.

Ad una lettura superficiale appare scontato che un cieco o un lebbroso o un paralitico non chiede altro che di essere guarito; invece, la domanda di Gesù non è tesa alla ricerca di una risposta, ma ad accertare la fede nel suo interlocutore. Infatti, in questo brano come in tanti altri, è la fede del malato la vera protagonista del miracolo. La fede opera il miracolo, quella fede che smuove le montagne (cfr. Mt 17,20), che sradica gli alberi e li pianta in mezzo al mare (cfr. Mt 21,21),  che rotola il masso davanti al sepolcro (cfr. Mc 16,3-4), che fa vedere  i cieli aperti (cfr. At 7,56) e che crea la comunità dei credenti (cfr. At 16,5).

 

E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!» E Gesù gli disse: «Và, la tua fede ti ha salvato».

 

(Maria di Magdala) voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: «Rabbunì!», che significa: Maestro! (Gv 20,16). Oltre il brano attuale, solo nel vangelo di Giovanni appare, in tutta la scrittura, la parola rabbunì che significa, come dice la scrittura stessa, maestro.

Questo appellativo di Gesù, nella forma più comune rabbì, non viene mai usato nei sinottici né dai miracolati né dai discepoli, mentre in Giovanni è usato sia da questi che da personaggi esterni al gruppo dei seguaci. Quindi, l’uso di questo termine sarebbe comprensibile nel quarto vangelo ma non negli altri, né tantomeno nella forma rafforzativa rabbunì.  Perché Marco ha voluto metterlo sulle labbra di Bartimeo? Perché ha voluto evidenziare l’affetto e la confidenzialità di un uomo il quale non aveva mai conosciuto Gesù, a differenza di Maria di Magdala? Sulle labbra dell’ex prostituta la parola non meraviglia, ma su quelle del cieco di Gerico sì. Avrebbe potuto chiamarlo Signore, figlio di Davide (come in precedenza), al limite maestro o rabbì, ma mai rabbunì. È un termine troppo forte per uno sconosciuto e il suo uso non segue nessuna logica scritturistica.

Allora, perché Marco l’ha usato? Possiamo azzardare solo una supposizione: quest’uomo cieco dalla nascita, gettato lungo la strada a mendicare tra Gerico e Gerusalemme (tra la vecchia e la nuova alleanza), al di fuori di ogni contesto sociale, inutile a se stesso ed agli altri, rifiutato da tutto il consesso umano, arriva ad una tale confidenza ed esprime un tale amore verso il Cristo da rivolgersi a lui con lo stesso termine che solo la Maddalena, nel suo amore infinito, saprà usare.

Inoltre, Bartimeo e Maria hanno la stessa cecità: il primo non vede il Messia ma ne intuisce la presenza, la seconda non lo riconosce ma, anch’ella, ne intuisce la presenza. Bartimeo sa che nello sconosciuto di cui sente parlare c’è la vita, Maria sa che nel giardiniere c’è la risposta alla sua angoscia. Sia l’una che l’altro hanno una fede enorme, quella fede che permette al cieco di riacquistare la vista ed alla Maddalena di vedere per prima il risorto. Perciò Gesù gli dice: «Và, la tua fede ti ha salvato». È la fede enorme di cui si è detto prima che ridona la vista a Bartimeo; la stessa fede che permette a Maria di gettarsi ai piedi del suo amato Maestro. Ed è la stessa fede che, in precedenza, ha dato la forza al cieco di elevare la sua voce sopra quella della folla che tentava di zittirlo. La fine del brano ritorna al suo inizio: il grido di Bartimeo si eleva al di sopra di tutti gli ostacoli che la vera cecità del mondo pone tra noi e il Cristo e la sua fede gli permette di smuovere le montagne della nostra incredulità fino a ricominciare una vita nuova, da uomini liberi, degni della propria somiglianza con Dio.

 

E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.

 

Sono rari i casi in cui il miracolato segue Gesù: Bartimeo è uno di questi. Anche la versione di Luca e quella di Matteo (seppure riferita a due ciechi) narrano che i miracolati seguono Gesù. E questo è un concetto molto forte: molti personaggi dei vangeli ricevono benedizioni dal Maestro, ma sono pochi quelli che lo seguono. Così anche oggi: tanti uomini e donne ricevono grazie e benedizioni dal Cielo, ma quanti di essi si pongono alla sequela del Cristo? Nei momenti tristi della nostra esistenza siamo sempre pronti a chiedere aiuto, ma puntualmente, dopo la tempesta, ci dimentichiamo del nostro Benefattore. Questo capita anche nelle relazioni umane: quando abbiamo bisogno di una raccomandazione per nostro figlio non abbiamo vergogna ad inginocchiarci davanti al politico di turno, salvo poi a dimenticarcene a favore ricevuto. Siamo davvero irriconoscenti, noi esseri umani!

L’insegnamento di Bartimeo è anche questo: riconoscere nel Cristo l’autore della propria rinascita ed essere pronto a seguirlo sulla via della croce, senza ripensamenti e, soprattutto, senza costrizioni. Gesù non ha chiesto niente al cieco, l’ha incontrato sul suo cammino e lo ha beneficato; dopodiché ha proseguito il suo viaggio verso Gerusalemme. È lui che lo segue spontaneamente nella certezza di aver trovato la ragione per cui vale la pena vivere.

C’è un profondo rapporto di gratitudine tra Bartimeo e il Messia. È la stessa gratitudine per la quale san Francesco ha lasciato la casa di suo padre per donarsi completamente al Regno. È la stessa gratitudine che spinge uomini e donne ad andare negli angoli più sperduti della Terra, mettendo a repentaglio la propria vita. Ed è la stessa gratitudine che fa varcare a giovani donne le porte dei conventi di clausura per seppellirsi nel silenzio e nella preghiera per tutti i loro giorni.

Per gratitudine san Paolo diventa apostolo delle genti ed accetta di essere rifiutato dai suoi fratelli giudei pur di annunciare il vangelo ad ogni uomo, giudeo o gentile che sia. Probabilmente è la spina nella carne di cui parla nella seconda lettera ai Corinti (cfr. II Cor 12,7 e segg.) la sofferenza che vive per questo rifiuto, ma non può esimersi dal dimostrare la propria gratitudine a colui che lo ha liberato dalla morte (cfr. Rom 8,1 e segg.; II Cor 1,9-11; II Tim 3,11; ecc.).

Il passo di Marco si apre con un forte grido di aiuto e si chiude con un’amicizia nuova realizzata tra Gesù e Bartimeo che niente e nessuno potrà mai rompere. Quella stessa amicizia per la quale Charles de Foucald ha vissuto la sua vita tra i poveri del Sahara, ad imitazione del suo beneamato fratello e Signore Gesù, nella ricerca dell’ultimo posto. [6]



[1] Da notare che rispetto al primo censimento, operato da Mosè ed Aronne, sono presenti solo Caleb e Giosuè, mentre tutti gli altri sono morti nel deserto (Nm 26,64-65).

[2] Vedi Un cammino senza fine di Carlo Carretto – Cittadella editrice 1986 (pagg. 137-145).

[3] Nella storia dell’umanità la folla è stata sempre sinonimo di forza anonima sulla quale fare leva per avvalorare le proprie tesi e crearsi, così, un consenso. Nel secolo che sta finendo, uomini come Stalin, Mussolini e Hitler hanno fatto della folla il primo soggetto-oggetto per sostenere il loro delirante progetto politico.

[4] Vedi Racconti di un pellegrino russo – Ed. Rusconi 1977

[5] a proposito dell’ora di Gesù: tutti e quattro i vangeli sono stati iscritti in funzione e a partire dall’ora di Gesù. L’evento centrale è costituito dalla sua passione e morte, dal grande mistero di un dio che si lascia crocifiggere per amore, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani (I Cor 1,23). Tutto ruota attorno ad esso e tutto ha senso in funzione di esso: se Gesù non fosse morto non sarebbe neanche risorto e tutta la storia della salvezza sarebbe restata incompiuta. Se l’evento della risurrezione rappresenta il compimento delle promesse di Dio, la passione e morte del Cristo è sicuramente l’evento massimo senza il quale la stessa risurrezione non sarebbe stata possibile.

[6] «Amiamo Dio, perché ci ha amati per primo». La Passione, il Calvario, è una suprema dichiarazione d'amore. Non è per redimerci che tu hai sofferto tanto, Gesù! Il più piccolo dei tuoi atti ha un valore infinito, poiché è l'atto d'un Dio, e sarebbe stato sufficiente, anzi sovrabbondante, per redimere mille mondi, tutti i mondi possibili. È per santificarci, per portarci, per spingerci ad amarti liberamente, poiché l'amore è il mezzo potente per attirare l'amore, poiché amare è il mezzo più potente per farsi amare... e poiché soffrire per chi si ama è il mezzo più invincibile per dimostrare che più le sofferenze sono grandi, più la prova è convincente, più l'amore di cui si dà dimostrazione è profondo. Mio Dio, quanto ci ami, tu che per noi hai voluto essere sprofondato in quest'abisso di sofferenze e di disprezzo, tu che in tal modo hai voluto darci tante lezioni, ma innanzitutto, soprattutto, hai voluto dimostrarci il tuo amore, quest'amore inaudito grazie al quale il padre ha dato il suo unico Figlio, e l'ha dato in mezzo a tali sofferenze e tali umiliazioni allo scopo di indurci, con la vista, con la certezza di un sì immenso amore, dimostrato e dichiarato in maniera così toccante e commovente, allo scopo d'indurci con ciò ad amare Dio a nostra volta, ad amare l'Essere così amabile che ci ama tanto. Amiamo Dio, poiché egli ci ha amati per primo.