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La speranza cristiana

 Catechesi di Don Nicola De Rogatis

 

La speranza è la seconda delle tre virtù teologali, dette così perché vengono direttamente da Dio e donate all’uomo perché possa essere partecipe della sua natura divina, ed è sicuramente, tra le tre, la più misconosciuta. Infatti, mentre è facile parlare della fede e della carità, farsi capire e capire in quanto sono termini e immagini che fanno parte della nostra formazione culturale durante gli ultimi quindici secoli, per la speranza le cose sono un po’ più difficili.

 

- L’esperienza umana

 

Avete mai sentito il detto popolare “chi di speranza vive disperato muore”?

Ecco, questa la dice lunga sul senso che diamo alla speranza: d’altronde essa fa parte di una serie di categorie mentali che non ci appartengono più. La speranza indica qualcosa da venire, è l’attesa di un evento che, nella fede, è certo che accadrà (come l’avvento del Messia per gli Ebrei) ma dal punto di vista prettamente umano potrebbe anche non accadere.

Il fatto è che la società in cui viviamo ci spinge sempre più verso uno stile di vita pragmatico[1], utilitaristico, dal riscontro immediato; perciò la fede e la carità sono più comprensibili: se hai un figlio condannato su una sedia a rotelle, sei senza lavoro e tua moglie ti ha lasciato con il primo venuto, e, nonostante tutto, sei ancora sorridente e pieno di fiducia nella vita, allora, anche per chi non è credente, puoi apparire un uomo di fede. Allo stesso modo, nessuno metterà, né ha messo mai, in dubbio che Madre Teresa è il prototipo della carità fatta uomo (anzi donna): solo chi nutre tanto amore per il suo prossimo può spendere tutta la sua vita nei sobborghi fetidi e dannati di una città come Calcutta senza aspettarsi niente in cambio, anzi mettendo a repentaglio la propria vita e quella delle sue sorelle.

 

Quindi la fede e la carità si possono vedere incarnate in un uomo, una donna, una situazione, senza rimanere pure idee o immagini, seppure elevate, di categorie mentali che appartengono al passato: sono, cioè, verificabili. La speranza, invece, non lo è, almeno non nell’immediato.

Chi pensava, nella prima metà del nostro secolo, che il muro di Berlino sarebbe stato abbattuto[2]? Forse, qualcuno, come in un sogno avrà visto quest’evento e probabilmente sarà morto molto prima, ma ha, comunque, sperato e forse questa sua speranza lo ha tenuto in vita molto più a lungo di quanto egli stesso avrebbe mai potuto immaginare.

Comunque, nell’immediato o negli anni più prossimi, quello che promette la speranza non si vede quasi mai; la speranza è come quel tesoro nascosto che l’uomo custodisce gelosamente ma non lo utilizza fino a quando non è certo che possa essere utile a se stesso e agli altri. Chi ha nel proprio cuore questa virtù è un uomo assai fortunato che, attraverso anche momenti di profondo sconforto e di sfiducia (cfr. Elia in cammino verso il monte Oreb I Re 19) non perderà mai di vista la strada da percorrere, né la fiducia in se stesso e nelle sue capacità.

La speranza è, probabilmente, la più laica delle virtù teologali per il semplice motivo che  sperare anche solo in un bene terreno (l’affetto di una donna, il calore di una famiglia, un credo politico, lottare per le ingiustizie sociali, ecc.) è fonte di speranza nei momenti bui della vita.

 

Victor Frankl[3], psicoterapeuta austriaco, aveva notato che non tutti i suoi compagni di prigionia, nel campo di Auschwitz, sopportavano le sofferenze allo stesso modo: chi aveva qualcosa in cui credere (una donna, una fede, un ideale) viveva più a lungo di chi, invece, senza alcuna speranza, si lasciava morire più rapidamente degli altri.  E’ un po' come il personaggio tipico di quei film americani che, ingiustamente condannato, sconta anni di carcere fino al momento giusto per poter fuggire e tornare dalla donna che lo aspetta. Da questa valutazione, Frankl ha elaborato un nuovo modo di fare psicoterapia, che si chiama logoterapia, che tenta di mettere il paziente nella condizione di scoprire dentro di sé che cosa lo mantiene in vita per poter fare leva e uscire dalla sua situazione di depressione.

 

L’uomo ha bisogno di sperare: da molti considerato un animale intelligente, fin dalle sue origini si è evoluto, lentamente ma costantemente, fino ad arrivare alle moderne tecniche scientifiche per le quali sarebbe addirittura possibile la creazione di altri esseri umani in laboratorio (scoperta sicuramente eccezionale al di là di tutti i problemi di carattere etico che comporterebbe)[4].

Dal suo primo apparire sulla Terra (secondo alcuni 90.000 anni fa, secondo altri più di 200.000 anni fa) l’uomo ha sempre cercato di migliorare la propria condizione di creatura di passaggio: dalla conquista della posizione eretta, alla scoperta del fuoco, alla costruzione delle prime case di legno, fino alla scoperta del computer e del telefonino che ha sicuramente rivoluzionato il suo modo di vivere.

Cosa lo ha condotto su strade spesso sconosciute? Perché tanto affannarsi sotto il sole nella ricerca della conoscenza e della verità? A che serve questa perenne costruzione della Torre di Babele per raggiungere il Cielo se poi il Cielo è sempre più lontano?[5] E perché continua a mettere al mondo dei figli se questa società gli appare sempre più assurda e nevrotica, dove un futuro migliore non si vede da nessuna parte?

La speranza pone l’uomo nella condizione di vivere: per un amore, per una fede, per un ideale, per la realizzazione dei propri sogni, per quello che volete, ma comunque per qualcosa che migliori la sua condizione morale e materiale (da qualunque punto di vista) e per questo si affanna, lotta, indaga, ricerca, fa le guerre, mette al mondo figli. La sua vita non ha senso se non si dà da fare in qualunque campo: da quello morale a quello scientifico, dal filosofico al materialista, ecc. La sua vita ha valore solo se la sera, adagiando le stanche membra sul suo giaciglio, sente di non aver sprecato la giornata che gli è stata data.

 

Oggi, la mancanza di lavoro per molti giovani e non, costituisce un grosso ostacolo alla realizzazione dell’individuo; anche la Chiesa ne ha preso coscienza, in questi ultimi anni, e non sono pochi gli appelli ai politici affinchè cerchino soluzioni valide per impedire che un ragazzo di 35 anni (!?) continui a vivere in famiglia senza prospettive per il futuro, coltivando, giorno dopo giorno, un senso di frustrazione, di inutilità della vita; ed a nulla valgono le tante belle parole che invitano a cercare dentro di sé una risposta: se non produce, con le sue mani e la sua intelligenza, quanto è necessario per il  sostentamento suo e della sua famiglia, non sarà mai un uomo emancipato.

Perciò, oggi più di ieri, il pensiero cristiano deve anche influenzare la società e collaborare con tutti gli uomini di buona volontà alla costruzione di una mentalità nuova del lavoro e alla realizzazione dello stesso, attraverso una politica[6] che rispetti il suo nome e la costituzione di gruppi, cooperative ed associazioni che siano di stimolo e di proposta alle amministrazioni locali, nazionali e internazionali per un valido inserimento dei giovani nel mondo del lavoro e attuare, finalmente, l’articolo 1 della Costituzione della Repubblica Italiana[7].

 

Ma la speranza è anche necessaria all’uomo per lottare contro quella che gli sembra il nemico più assurdo e imbattibile che da sempre lo segue passo passo fino all’epilogo: l’idea della morte! Questa sorella dagli occhi di teschio[8] che san Francesco chiamava sorella nostra morte corporale ha sempre oscurato i sogni dell’uomo; il suo sforzo di creare qualcosa, di trovare  nuovi orizzonti, di darsi una discendenza sono sempre stati dettati anche dalla necessità di sconfiggere quest’idea mostruosa che ha sempre popolato i suoi incubi e dalla quale, nonostante tutti gli sforzi, non è mai riuscito a sfuggire.

La morte è il confine tra i nostri sogni e la realtà: non c’è niente di più reale della morte! E’ la discrimante tra quello che siamo (polvere sei e in polvere tornerai - Gen. 3, 19) e quello che vorremmo essere (io sono divino!  gridava Tom Hanks nel film Philadelphia). La morte ci ricorda che non siamo infiniti ma che siamo destinati alla corruzione, a sparire da questa Terra, ad essere dimenticati da tutto e da tutti: solo le nostre idee, le nostre azioni importanti, le nostre scoperte verranno ricordate e per esse noi diventiamo eterni.

Per questo la fatica della conquista del Cielo; per questo il bisogno degli affetti, della trasmissione dei nostri geni ai figli; per questo la speranza di riuscire a fare un piccolo passettino verso la verità; per questo ci alziamo, lavoriamo, sudiamo, ci arrabbiamo, ma, comunque, viviamo: è la speranza nella vita che ci tiene vivi fin dal nostro primo vagito; è la speranza in un domani migliore che ci fa mettere ancora al mondo dei figli; è la speranza di essere ricordato da qualcuno che amiamo una donna per tutta la vita.

 

La speranza è l’ossigeno della nostra esistenza e chi non spera non vive: vegeta. Chi fa uso di droghe quotidianamente ha perso il senso della speranza nella sua vita, pensa che non può cambiare modo di vivere, che nessuno gli vuol bene e che a nessuno può dare un affetto vero; sa che nel suo futuro c’è solo la morte per overdose o per una partita di droga tagliata male, ma non gliene frega niente: non ha paura della morte perché è già morto! Che tristezza pensare che molti uomini, anche di una certa levatura intellettuale, preferiscono sostenere questi morti viventi fino alla fine (purchè non diano fastidio con scippi per le strade e furti negli appartamenti) piuttosto che dare loro un’iniezione di speranza (mi riferisco alle proposte di legge antiproibizioniste che, per fortuna, il Parlamento Europeo, nel mese di settembre 98, ha rigettato).

 

In conclusione, la seconda virtù teologale, così misconosciuta e incompresa, è l’elemento essenziale della nostra vita, anche solo dal punto di vista umano, senza volerne analizzare l’essenza teologica. Basta guardarsi intorno, nel quotidiano, riflettere solo sulla giornata di oggi che sta per passare per renderci conto di quanto sia vitale la speranza, di quanto sia indispensabile per una vita vissuta veramente. Sarebbe sufficiente fermare il nostro pensiero su come abbiamo lavorato,  su come abbiamo guardato nostra moglie o nostro marito, su come abbiamo parlato ai nostri figli o ai nostri genitori, per capire che tutto quello che facciamo, tutto quello per cui viviamo, tutto il sudore e le lacrime che mettiamo nel nostro vivere, sono retti dalla speranza in una vita migliore, in un affetto vero, in un’azione che rimarrà nella storia affinchè possiamo dire a noi stessi, al termine di questa vita: muoio soddisfatto, ho seminato quel che ho potuto e, se anche non ho raccolto, qualcun altro raccoglierà; in ogni caso, la vita che ho vissuto ne valeva la pena!

 

- L’esperienza cristiana

 

Alla luce della Rivelazione le cose diventano un po’ più complicate, ma estremamente più interessanti perché tutta la vita umana è più interessante quando è illuminata dall’amore di Dio.  “Lampada ai miei passi è la tua parola, Signore” recita il salmo 118. La Rivelazione cristiana svela all’uomo la sua intima essenza e il fine ultimo della propria vita: non a caso, nei primi secoli, i catecumeni che ricevevano il battesimo e venivano ammessi alla mensa eucaristica erano chiamati illuminati.

L’amore divino rende tutto più chiaro, anche quando non capiamo, anche quando siamo avvolti dalle tenebre del peccato e della morte (cfr. Sal 115): allora la speranza diventa qualcosa di più del motore dell’esistenza (come abbiamo visto prima che, però, potrebbe dare anche adito a qualche interpretazione fatalistica della vita - cfr. Qoelet 1.2,1-12). Essa entra in un processo più vasto che abbraccia la storia dell’umanità fin dalla sua nascita, ma in particolare dalla chiamata di Abramo (Gen 12 e segg.). La speranza cristiana è parte integrante della storia del popolo di Israele[9], l’attesa del Messia[10] è mantenuta viva dai numerosi profeti[11] sia nel periodo pre-esilico (primo Isaia, parte di Geremia, Osea, Sofonia,  ecc.) che post-esilico (secondo e terzo Isaia, Ezechiele, Amos, Aggeo,  Malachia, ecc.); il popolo ebraico attendeva un nuovo liberatore dalle sue schiavitù storiche (Assiri, Babilonesi, Romani) il quale, in nome di Dio e con la sua potenza, doveva ricondurre il paese agli antichi splendori dei regni di Davide e Salomone.

Quindi, non tanto una guida spirituale (per questo bastava la Torah[12] con le diverse scuole rabbiniche) ma un vero e proprio condottiero, colui che avrebbe instaurato su questa Terra la legge di Dio e fatto di Israele un popolo che sarebbe stato riconosciuto pastore e guida per tutti gli altri popoli della Terra (cfr. Is 2,1-5. 66,15-24; Mi 4,1-3).

Tuttavia, soprattutto nel periodo post-esilico, i profeti hanno  richiamato lo stesso popolo  ad un’osservanza interiore della legge: l’amore di Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le proprie forze e l’amore del prossimo al di sopra di tutto valgono più di mille olocausti e sacrifici.

 

In questo clima di attesa, sotto l’impero Romano, con le varie scuole rabbiniche (Farisei[13] e Sadducei[14] in particolare), esperienze spiritualiste e di vita comune più diverse tra loro fra cui spicca quella degli Esseni[15] e con chi, come gli Zeloti[16], voleva ribellarsi con la forza al potere straniero, in questo scenario nasce Gesù di Nazareth.

Un’altra componente molto importante del popolo ebraico che non si riconosceva in nessuno dei gruppi precedenti, ed era la stragrande maggioranza, che  potremmo definire maggioranza silenziosa, sono i poveri di Jahvè, gli smarriti di cuore, i ciechi e gli storpi di Isaia (cfr. Is 40), quelli che la Bibbia chiama gli anawim, tutti coloro che vivono stentatamente, che sudano per dare un pezzo di pane a sé e ai propri cari; tutti quelli che si sentono oppressi dalle malattie, dall’angoscia della morte e dal peccato, coloro ai quali Gesù si rivolgerà con parole di rara poesia e dolcezza (Mt 5, 1-12); coloro per i quali il Messia viene, sotto le spoglie di un povero, di un indifeso, di un uomo qualunque, in una famiglia qualunque; coloro che oggi possiamo riconoscere anche in noi stessi, o nel nostro vicino di casa, o nel popolo straziato dei Curdi o dell’Irlanda del Nord, nel nostro amico che ha perso il lavoro o in colui che a 40 anni attende la morte a causa di un virus che lo sta consumando.

 

L’evangelista Matteo, nel suo prologo, descrive quest’attesa come compiuta e, per darne una valenza storica, compone una genealogia di Gesù che va da Abramo fino al Cristo passando per regno di Davide e la deportazione in Babilonia. L’ebreo Matteo è preoccupato di dimostrare ai suoi fratelli che realmente Gesù di Nazareth è il Messia atteso da Israele e che l’uscita di Abramo dalla sua terra, la schiavitù in Egitto e la sua uscita, gli splendori dei regni davidici con tutte le successive decadenze morali e politiche, la deportazione in Babilonia, il ritorno nella terra promessa con la ricostruzione del Tempio e l’ancora attuale dominio dell’Impero Romano non sono stati periodi di sofferenza inutili, ma, anzi,  avevano preparato il terreno affinchè il seme della giustizia e della pace di Dio potesse mettere solide radici e germogliare fino a diventare un albero tra i cui rami gli uccelli del cielo avrebbero fatto il loro nido (cfr. Lc 13,19).

Insomma, la promessa fatta ai padri si è adempiuta: Dio si è ricordato del suo popolo (cfr. Lc 1,54-55), ha mantenuto le sue promesse e si è preso cura egli stesso, tramite il suo unico Figlio, di intervenire direttamente nella storia dell’umanità.

 

Nella sua genealogia, Matteo nomina cinque donne: Tamar, Betsabea e Maria che appartengono al popolo ebraico e Racab e Rut  le quali, pur non facendone parte dalle origini (Racab era la prostituta di Gerico che salva le spie mandate da Giosuè e Rut era la moabita, nuora di Noemi che sposò Booz e diede alla luce Obed, padre di Iesse, padre di Davide) ne diventarono partecipi per parentela e diedero il loro assenso alla continuazione della discendenza.

La presenza di una prostituta, Racab, non deve scandalizzare: infatti, Dio non guarda alla condizione sociale dei suoi eletti, ma al loro cuore; anche Davide non era altro che un giovane pastore, tenuto in così poco conto anche dai suo familiari che non fu neanche presentato a Samuele quando questi chiese al padre, Iesse, di radunare la sua famiglia. Esempi del genere ce ne sono molti anche nel N.T.: basti ricordare la Maddalena , Zaccheo, l’adultera perdonata e lo stesso Matteo, ebreo sì, ma traditore dei suoi fratelli perché faceva l’esattore per conto dei romani.

 

Anche Luca compone una genealogia di Gesù, di respiro, però, più universalistica (non dimentichiamo che Luca proviene dal paganesimo) risalendo fino ad Adamo; entrambe, però, finiscono con il nome di Giuseppe, padre legale ed ufficiale del Cristo e mediante il quale i due evangelisti vogliono esprimere come il Messia abbia il certificato di autenticità essendo veramente discendente della stirpe di Davide, da cui discende Giuseppe[17]. Questo era importante perché nelle scritture è detto che il Messia deve essere figlio di Davide.

 

Dopo aver stipulato il certificato di origine di Gesù, Matteo ne descrive la nascita soffermandosi sulla figura di Giuseppe, definito giusto. Che senso vuole dare l’autore a questo termine? In primo luogo riguardo all’atteggiamento verso Maria come promessa sposa: la legge permetteva di ripudiare una donna che, nel tempo del fidanzamento, risultava incinta e queste donne, spesso, finivano lapidate nella pubblica piazza; Giuseppe decise di ripudiarla in segreto per salvarle la vita. In secondo luogo, e principalmente, riguardo all’atteggiamento verso Maria come soggetto di una promessa; sicuramente Giuseppe non sapeva bene come erano andate le cose tra lei e l’angelo, ma intuiva che c’era qualcosa di non molto chiaro e, quindi, meditava dentro di sé sull’accaduto ed, a scanso di equivoci, aveva scelto la strada meno dolorosa.

Ma quest’atteggiamento di attesa, di attenzione verso i fatti, di meditazione interiore lo pone nella condizione di capire meglio quale sarebbe stato il suo ruolo in tutta la storia.

 

Giuseppe è giusto perché non agisce impulsivamente: riflette sui fatti, lascia che la pioggia penetri nella sua terra arida e dia frutto.

Giuseppe è giusto perché, nonostante la sua formazione ebraica, nella quale l’uomo era tutto e la donna solo una fattrice per dare figli alla patria (un po’ come ai tempi di Mussolini), si ferma di fronte a questa fanciulla (stando alla tradizione aveva all’incirca 14 anni), alla sua storia, al suo aspetto di cerbiatta impaurita ma, nello stesso tempo, dignitosa nella sua fierezza di donna ebraica che non ha tradito il suo promesso sposo e non è venuta meno alla legge, e ne prova compassione.

Giuseppe è giusto, anche e soprattutto, perché con questo suo atteggiamento dà a Dio la possibilità di spiegare il suo progetto e gli permette di farne parte, senza violenza, potremmo dire, parafrasando il titolo di un bel film: per amore, solo per amore.

 

Il giusto, nella scrittura, è colui che prende parte al progetto di Dio; è colui che di fronte agli avvenimenti più raccapriccianti, si ferma e riflette; il giusto è colui che cosciente della sua profonda indegnità, dice il suo amen a una storia più grande di lui, anche se non la comprende appieno; il giusto è colui che al mattino si reca al lavoro con uno spirito lieto, sapendo che oggi non è ieri e che domani non sarà oggi, ma che tutt’e tre sono parte dell’eternità di Dio; il giusto è colui che sposa una donna anche se non ha una casa né un lavoro, ma sa che in quel gesto è il compimento delle promesse dell’Altissimo; il giusto è colui che, con un tumore al fegato, conforta il suo amico che ha un’influenza.

Il giusto è colui che spera, che crede e che ama (lo ritroveremo, perciò,  anche negli altri due incontri sulla fede e la carità); è colui che vive illuminato dai riflettori della Provvidenza.

Il giusto è colui che, come Mosè e Giuseppe, non vedrà il compimento della promessa ma ciò non lo distoglie dall’agire: egli semina, un altro annaffierà e un altro mieterà (cfr. I Cor 3,5-9; Gv 4,35-38). In questo senso, come si diceva all’inizio, la speranza non è comprensibile per noi uomini del XX secolo, figli di una mentalità pragmatista e utilitarista che vuole vedere tutto annunziato, svolto e compiuto nel giro di pochi mesi o, addirittura, di poche ore (oggi i ragazzi parlano dei loro fidanzamenti come storie che durano qualche settimane o anche solo qualche ora in un locale notturno).

 

Pensiamo ai personaggi della genealogia di Gesù vissuti tanti secoli prima, pedine consapevoli o meno, della grande scacchiera della storia della salvezza; e pensiamo a noi, oggi, qui riuniti ad ascoltare queste catechesi, con le nostre gioie e le nostre speranze, ma anche con i nostri fallimenti e le nostre angosce. Ci piaccia o no, siamo parte di questo mosaico, membra vive della Chiesa, con il gravoso compito sulle spalle di gridare al mondo: Dio esiste e ti ama!

Siamo degni di stare qui? Sono degno, io, di predicare? È degno il nostro parroco di consacrare il pane e il vino? Erano degni Abramo, Isacco, Giacobbe, Rut, Iesse, Roboamo, Giosafat, Amos, Zorobabele e tutti gli altri personaggi descritti da Matteo? Erano degni Noè, Mosè, Samuele, Davide, Isaia, Geremia, Elia e tutti i re e profeti della storia di Israele? Erano degni padre Massimiliano Kolbe, Madre Teresa di Calcutta, monsignor Romero, papa Giovanni, Isaac Rabin, Arafat, Gorbaciov e tutti gli altri operatori di pace del nostro secolo?

La dignità, per come la intendiamo noi, non c’entra niente con la chiamata di Dio, così come la speranza cristiana non c’entra niente con la speranza di vincere il super-enalotto: si pronunciano solo allo stesso modo ma sono distanti anni luce.

La chiamata di Dio, per il mistero del suo amore gratuito, ci inserisce in un progetto di salvezza, per noi e per il nostro prossimo, e noi siamo chiamati a rispondere, come il giovane Samuele: “Parla, Signore, il tuo servo ti ascolta” (cfr. I Sam 3) o come Francesco: “Signore, cosa vuoi che io faccia?”.

Sperare vuol dire anche perseverare (cfr. Lc 21), credere fino in fondo che quello che stai facendo è giusto, anche quando ti senti profondamente solo: tu non agisci per libera iniziativa o per realizzare un tuo progetto, ma sei come una matita di cui Dio si serve per scrivere la sua storia (come piaceva definirsi Madre Teresa).

 

C’è un canto che dice, pressappoco: “Dio non ha mani, non ha braccia, non ha bocca; siamo noi le sue mani, le sua braccia, la sua bocca”. Lo so, sembrano concetti scontati che siamo anche riusciti a svuotare del loro significato più profondo: li abbiamo banalizzati, ma se ci riconosciamo nel senso che abbiamo dato, stasera, alla speranza, forse ci rendiamo conto che nella vita e, in particolare, nella scrittura non c’è niente di banale; ogni evento, ogni atto, ogni parola, ogni virgola ha la sua importanza.

Anche perché, se banalizziamo questi concetti, alla fine banalizziamo noi stessi, il nostro essere battezzati, il nostro essere uomini e donne. E’ la nostra vita che rendiamo banale e limitiamo il nostro orizzonte a pochi metri da noi. Banalizziamo la nostra dignità di figli di Dio e leghiamo le mani al Padre celeste impedendogli di agire.

Il figlio della parabola lucana che scappa dal padre non fa dispetto a lui, bensì a se stesso; è il figlio che prova la fame, la sete, il freddo, la solitudine e l’angoscia. Se noi saltiamo giù dalla scena dicendo che tutto questo non c’interessa più, Dio troverà anche un altro attore che ci sostituisca, così come Gesù sarebbe nato lo stesso anche se Maria avesse detto no e sarebbe morto lo stesso anche se Giuda non lo avesse tradito (cfr. Is 55.10-11), ma noi saremmo fuori da questo progetto[18].

Pertanto, l’unica disperazione vera, è quella di tirarsi fuori volontariamente dalla storia che Dio vuol fare con noi e poi rendercene conto. E’ l’unica, vera disperazione; è, forse, quello che i vangeli definiscono peccato contro lo Spirito Santo; è sentire una chiamata, un fuoco che ti brucia dentro, e dire no! buttare acqua affinchè si spenga, gettare nelle fogne il vino nuovo del Regno e accontentarsi della nostra vita incolorore, inodore e insapore, come l’acqua (cfr. Gv 2, 1-12).

La speranza ci dice che i nostri peccati sono perdonati, che Dio non si rimangerà quello che ci ha promesso e che, alla fine dei tempi, il male sparirà in modo definitivo dal mondo anche perché le opere dei santi[19] lo hanno sgretolato, a poco a poco, come la goccia sul sasso, nei secoli.

Vogliamo, noi, essere questa goccia o preferiamo essere il fiume della stupidità umana? Vogliamo ragionare con la nostra testa o preferiamo lasciarci trasportare dalla testa degli altri?

Vogliamo sentirci dire, nel giudizio finale: “Venite, o benedetti dal Padre mio; possedete il regno che vi è stato preparato fin dalla fondazione del mondo. Perché io ebbi fame e voi mi deste da mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e m'avete accolto;  fui nudo e m'avete rivestito; fui infermo e mi visitaste; fui in prigione e mi veniste a trovare”; oppure preferiamo queste altre parole: “Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno, che è preparato per il diavolo e i suoi angeli. Perché io ebbi fame e voi non mi deste da mangiare; ebbi sete e non mi deste da bere; fui pellegrino e non mi avete accolto; nudo, e non mi rivestiste; infermo e in prigione e non mi veniste a trovare”? (cfr. Mt 25,31-46)

 

A noi la scelta: siamo liberi! Dio non ci violenta, ma, come il padre del figliol prodigo, ci attende sulla soglia di casa e manda i suoi messaggeri nel mondo lontano che ci siamo scelti per invitarci a ritornare a lui; anzi, spesso è proprio Lui che ci rende la vita difficile perché lontano dall’Amore non si sta bene.

Così anche noi, un giorno, potremo dire: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro te; non sono più degno d'esser chiamato tuo figlio!” (Lc 15,21) ed egli metterà anche a noi la veste più bella, l’anello al dito e i calzari ai piedi ....... e il vitello grasso? L’ha già ammazzato,  2.000 anni fa, sul monte Golgota, fuori le mura di Gerusalemme, il suo figlio più bello, l’unigenito, l’amato che si lasciava amare, e che noi, ogni domenica, mangiamo nella sua casa, il cui cibo è vero nutrimento e il cui sangue è vera bevanda.

 

In questo tempo d’Avvento viviamo con questa speranza: il Signore ha compiuto le sue promesse; oggi un bimbo ci è stato donato e vuole venire ad abitare in mezzo a noi.

 

Maranà tha! Vieni Signore Gesù! (Ap 22,20)

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

P.Rossano - G.Ravasi - A.Girlanda “Nuovo dizionario di teologia biblica”

AA.VV. “ La Bibbia di Gerusalemme”

J.Radermarkers “Lettura pastorale del vangelo di Matteo”

AA.VV. “Enciclopedia multimediale Microsoft Encarta”



[1] Pragmatismo Dottrina filosofica elaborata dai filosofi statunitensi del XIX secolo Charles Sanders Peirce, William James e altri, secondo cui la verifica della verità di una proposizione si identifica con la sua utilità pratica: il fine del pensiero è guidare l'azione e l'effetto di un'idea è più importante della sua causa.

Il pragmatismo fu la prima filosofia americana elaborata autonomamente, che si oppose alla speculazione riguardante problemi privi di applicazione pratica. Il pragmatismo asserisce che la verità è relativa al tempo, al luogo e allo scopo della ricerca e il suo valore riguarda sia i mezzi che i fini. Il pragmatismo fu lo stile filosofico prevalente negli Stati Uniti durante il primo quarto del XX secolo. Il filosofo e pedagogista americano John Dewey trasformò il pragmatismo in una nuova filosofia che chiamò strumentalismo.

 

[2] Abbattuto, notiamo bene, non caduto perché sennò sembrerebbe che sia caduto da solo, mentre è stato abbattuto dalla caparbietà, dalla tenacia e dal sangue di tanti politici, intellettuali, uomini di fede e semplici contadini, che hanno creduto che un giorno il mondo intero avrebbe assistito a quello che è accaduto il 9 novembre 1989.

[3] Frankl, Victor (Vienna 1905- ), psicoterapeuta austriaco. Sviluppò il concetto di logoterapia, sulla base della teoria secondo cui il bisogno sottostante l'esistenza umana è la ricerca del significato della vita. Prigioniero dal 1942 nei campi di concentramento nazisti, durante la detenzione Frankl scrisse Dai campi della morte all'esistenzialismo (1959). Professore di neurologia e psichiatria dal 1947, è ricordato anche per il libro La ricerca umana di significato: un'introduzione alla logoterapia (1962).

 

[4] Clonazione Processo che permette di ottenere una o più copie identiche di una cellula o di un intero organismo senza l'intervento della fecondazione o della riproduzione sessuata. Una nuova tecnica sviluppata di recente permette di introdurre geni clonati direttamente nel genoma delle cellule degli organismi superiori. Questa procedura, chiamata terapia genica e attualmente in corso di sperimentazione su animali di laboratorio, potrebbe venire usata in futuro anche sull'uomo per correggere gravi patologie come la talassemia o alcuni tipi di diabete mellito. Alla primavera del 1997 risale la prima clonazione di un mammifero, la pecora Dolly, ottenuta al Roslin Institute di Edimburgo. La riuscita dell'esperimento, che ha suscitato molto clamore nell'opinione pubblica e nella comunità scientifica, ha anche dato origine ad accese discussioni sulle implicazioni etiche di tale risultato (in particolare, in prospettiva della possibilità della clonazione umana), oltre che sulla necessità di una regolamentazione giuridica di tali procedure.

[5] Lo sanno bene gli astrofisici quando constatano come l’universo si allontani  quanto più si scopre una nuova stella o una nuova galassia.

 

[6] Politica: scienza e arte di governare lo Stato.

[7] L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.

[8] Espressione tratta dal musical “Forza venite gente” ispirata alla vita di san Francesco.

[9] Nell’A.T. le parole speranza e attesa (di cui è sinonimo) appaiono più di 100 volte e il compito dei profeti è sempre stato quello di mantenere viva nel popolo la certezza che Dio avrebbe sempre vinto il male, anche nei momenti più duri della sua storia (come la deportazione in Babilonia 586- 536 a .C.).

[10] Messia: nella teologia cristiana, l'Unto, il Cristo, nome ebraico dell'atteso liberatore dell'umanità, assunto da Gesù e riconosciutogli dai cristiani. La parola deriva dall'ebraico mashiah, "unto", e nella versione greca della Bibbia, i Settanta, è tradotto con Christòs, da cui "Cristo". Il nome "Gesù Cristo", dunque, identifica Gesù come il Messia, mentre l'ebraismo afferma che il Messia deve ancora giungere.

 

[11] Profezia: fenomeno religioso per cui un messaggio viene inviato da una divinità agli esseri umani tramite un intermediario, il profeta. Il messaggio può riferirsi a eventi futuri, ma è spesso una mera ammonizione, un incoraggiamento o un'informazione. Della profezia sono parte divinazione e oracolo, tecniche tramite le quali si ritiene di poter apprendere la volontà degli dei. Spesso la profezia avviene durante un'estasi indotta dalla danza, dalla musica o con altri mezzi. La profezia acquisì un valore religioso senza precedenti nell'ebraismo e nel cristianesimo: secondo l'ebraismo il profeta è un individuo scelto da Dio, spesso contro la sua volontà, che patisce la persecuzione o persino la morte per rivelare al popolo i disegni di Dio. Gli autori dei libri profetici dell'Antico Testamento si suddividono in tre profeti maggiori e dodici profeti minori, che hanno scritto libri più brevi. Il cristianesimo ereditò dall'ebraismo l'idea di profezia, riconoscendola come dono sin dai tempi apostolici; la sua importanza diminuì tuttavia già a partire dal I secolo.

 

[12] Torah: (In ebraico "legge" o "dottrina"), nell'ebraismo, il Pentateuco, soprattutto in forma di rotolo di pergamena da leggere nella sinagoga. La Torah è composta dai cinque "libri di Mosè": Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio, ed è il fondamento della religione e della legge ebraiche. I rotoli, considerati sacri, sono oggetto di culto; ogni sinagoga ne conserva molti, ciascuno protetto da una copertina di materiale prezioso e decorata in argento. Una speciale festa in onore della Torah, nota come Simhath Torah (dall'ebraico "felicità nella Legge"), viene celebrata nella sinagoga con canti e danze. Il termine "Torah" può includere anche le compilazioni e i commenti al diritto orale del Talmud e del Mishnah, estendendosi talvolta al Midrash e ad altri commentari sul diritto.

[13] Farisei: corrente dell'ebraismo, emersa probabilmente nel II secolo a.C. nell'ambito del movimento d'opposizione alla politica di contaminazione della tradizione ebraica con la cultura greca. Il termine "farisei" significa "separati" e fu usato per definire gli appartenenti a questa corrente a causa dell'atteggiamento di particolare rigore da loro assunto come fazione estremista che si oppose strenuamente alla politica di compromesso adottata da altri gruppi come i sadducei, rifugiandosi nella pratica integrale e minuziosa delle prescrizioni della legge antica - oltre 600 - come unico mezzo per garantire la sopravvivenza della religione dei padri. Questa tendenza legalistica contribuì effettivamente a trasmettere i principi dell'ebraismo anche dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. e fu adottata dai rabbini nei secoli successivi. I farisei compaiono nei Vangeli come avversari di Gesù Cristo, che, impegnandosi in frequenti dispute con loro, finisce con il condannare severamente (cfr. Mt 23) il loro formalismo come motivo di autocompiacimento ipocrita e di rinuncia a un autentico impegno etico e religioso.

 

[14] Sadducei: corrente rabbinica che si rifaceva solo al Pentateuco e non accettava le modifiche e le aggiunte che erano state fatte alla Legge in epoche successive, soprattutto verso il II sec. A.C. da movimenti come i Farisei; i sadducei non credevano, tra l’altro, alla resurrezione dei morti e per questo entrarono in contrasto con Gesù. Sul piano politico si schieravano sempre a favore dei potenti di turno.

[15] Esseni: membri di una corrente ebraica dedita alle pratiche dell'ascetismo e diffusa in Palestina, soprattutto sulle rive del mar Morto, fra il II secolo a.C. e il II secolo d.C. Il nome deriva dall'aramaico e significa "i puri". Ignoti alla Bibbia e alla letteratura rabbinica, gli esseni sono citati nelle opere di Filone di Alessandria, dello storico romano Plinio il Vecchio e di Giuseppe Flavio. Caratteristiche essenziali del movimento erano la comunità dei beni e la stretta osservanza delle norme di purificazione rituale, con la pratica scrupolosa delle abluzioni; ai fedeli, inoltre, era proibito fabbricare e utilizzare armi, dedicarsi ad attività commerciali e prestare qualsiasi forma di giuramento differente da quello di fedeltà ai principi della comunità, pronunciato dopo un breve periodo di noviziato. Gli esseni erano tenuti al vincolo della segretezza e all'osservanza di una rigorosa disciplina che comportava punizioni per ogni infrazione.

[16] Zeloti: movimento politico-religioso ebraico, noto per la sua strenua resistenza al dominio romano in Palestina nel I secolo d.C. Organizzatosi durante il regno (37- 4 a .C.) di Erode il Grande, il gruppo, guidato da Giuda Galileo, passò alla rivolta armata dopo la sottomissione della Giudea alla sovranità diretta di Roma, sancita nel 6 d.C.: riconoscere l'autorità pagana dell'imperatore romano significava, per gli adepti, ripudiare l'autorità di Dio e sottomettersi alla schiavitù. Una frangia estremista, nota con il nome di "sicari" (latino sica, "pugnale") praticava atti di terrorismo, colpendo i cittadini romani e le autorità ebraiche accusate di collaborazione con l’oppressore.

[17] Probabilmente anche Maria era di discendenza davidica, ma gli evangelisti non ne parlano anche perché era importante la paternità e non tanto la maternità.

[18] Attenzione: questo non vuol dire essere dannati, perché la salvezza di Dio interviene al di là delle nostre categorie mentali. La Chiesa non è un partito dove chi è fuori è fuori: questo penso sia stato chiarito molto bene dal Concilio Vaticano II.

[19] I santi, nella scrittura, non sono quelli che stanno con il collo torto ai lati degli altari, ma tutti i battezzati, i cristiani (cfr. Rm  15,25-26; I Cor 16, 1.15;  II Cor 9, 1.12;  Fil 4, 21-22; I Pt 1, 15-16; Ap 8,3-4; Gd 1,3.14; At 9,13.32.41; ecc.).